“La vestaglia del padre” di Alessandro Moscè, la recensione

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FABRIANO – Alessandro Moscè ha pubblicato “La vestaglia del padre”, Torino: Nino Aragno Editore, 2019, pp. 116, € 12. Nato ad Ancona nel 1969, vive a Fabriano. Scrittore marchigiano di nascita e di vita, ha dato alle stampe numerose raccolte poetiche con traduzioni in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. In questa sua ultima raccolta in versi si rapporta con il tema della morte, la morte del padre e con quanto di conseguenza, in lui, il lutto genera.

Esprime così tutto il virgulto di emozioni legate ad episodi che fanno sentire il forte legame tra i due: “La polvere nascosta nella camera da letto/gli interstizi delle mattonelle nel pavimento nell’atrio/e gli armadi a muro lo sanno/che non ci sei più”. La casa parla del padre, persino le mattonelle. “Non sento più nulla al cimitero, neanche il freddo, / sparito con te in un rettangolo di cemento / che abiterai come la camera da letto.” Il sentire il genitore lontano che non è più presente, “nella paura che le distanze siano incolmabili anni luce / su questo buio che non sa di Dio”.

Una lontananza reale non immaginata con cui Moscè si rapporta e a cui cerca di darsi un senso, dicendo così: “Si cerca sempre di dare un senso alla morte/ che sia il bisogno dei vivi tra i vivi”. In questo ricorda alcuni testi di Caproni, Sereni e Gatto. Cerca nella religione, in un Dio che menziona ma con una fede languida. Scava nel rimembrare con gli oggetti e i ricordi, con la passione comune per la Lazio, la squadra di calcio che rappresenta, ovvero una vicinanza ideale che funge da punto d’incontro tra passato e presente. Poi i viaggi, Roma e le Marche, le stazioni, le immagini degli incontri fortuiti sui vagoni, il cordone che lega i posti della sua crescita e del lavoro del padre a Vigna Clara.

La sua vita che si fonde con quella del passato e del padre, una fusione che diviene alle volte osmosi, il distacco forzato dalla vita che però torna a permearsi di episodi, una voglia di rompere le catene e insieme di fare ciò che non si può, ciò che è proibito, che ha portato la vita del poeta a leggere i propri episodi con quelli del genitore ricordato “con la vestaglia”. Torna sovente l’immagine del cuscino, della camera da letto, degli armadi. Si avverte nei versi un’ansia di non chiudere, tanto che manca il punto finale in ogni pagina.

I versi sono lunghi e alle volte roboanti di echi. Poi la chiusa con il rimando ai malati psichici di un ex manicomio. Una poesia che porta nei meandri di un incontro con la morte, il dolore, la sofferenza, l’inquietudine e il bel tempo d’infanzia spruzzato nel libro e richiamato anche in copertina parlando della nonna quando l’autore scrive “Non toglierei nulla, / non ho nulla da eccepire /ai lemuri dietro di me /che si radunano in fila, /che sorridono in vacanza, /incontro alla mia mano /che li afferra /e non li prende”.