Bellezze del territorio marchigiano: il Santuario del Beato Sante

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testo e foto di Monica Baldini

MOMBAROCCIO (PU) – Rappresenta una ricchezza religiosa e storica viva tra le colline della provincia pesarese il convento-romitorio Santa Maria di Scotaneto in Mombaroccio rinominato Santuario del Beato Sante. Qui vi trascorse tutta la sua vita claustrale il penitente francescano Giansante Brancorsini (1343-1394) che per la sua preziosa opera di devozione e prostrazione al Santissimo divenne Beato e rese il santuario meta di un interrotto flusso di pellegrini.

Le fonti da cui è possibile risalire alla ricostruzione della vita del Beato si rifanno a Fra Bartolomeo da Pisa suo contemporaneo (morto nel 1399) che nell’opera, “De Conformitate vitae B. Francisci ad vitam D.N.J.C” evidenziava l’aspetto penitenziale del giovane francescano sottolineando che si nutrisse solo di erbe e frutti della terra senza mangiare per nulla pane e carne e che dopo la morte il suo sepolcro divenne meta continua di pellegrinaggi e molti miracoli avvennero per sua intercessione.

Ancora Fra Giacomo Oddi nel 1400, con il suo testo scritto in volgare umbro la “Franceschina”, parlava del Beato Sante accennando ad un omicidio commesso dal frate e una piaga da lui richiesta al Signore per espiare almeno in parte il danno arrecato al suo compare, citava il suo forte spirito di obbedienza e intensa preghiera e sottolineava i molti miracoli compiuti dal francescano in vita e in morte.

Leonardo da Utino, nella sua opera “Sermones Aurei” del 1480 citava il beato tra i “santissimi” della Provincia minoritica delle Marche. Pietro Ridolfi da Tossignano parlò nella sua “Historiarum Seraphicae Religionis” del pentimento e della scelta di entrare nell’Ordine di San Francesco proprio per far penitenza. Francesco Gonzaga nel suo “De Origine Seraphicae Religionis” del 1587 e Fra Mariano da Firenze nel suo “Compendium Ordinis F.F. Minorum” rimandarono invece con brevi accenni al beato.

Luca Wadding (1588-1657) nel 1600 scriveva gli Annales e riportava un’ampia traccia tramite fonti a lui pervenute contestualmente. Ci sono poi scritti a nome di Francesco Verdeselli. Come riportò Antonio Maria Bonucci: “Come il nostro Beato era di indole assai buona, e niente inclinato a far male a veruno, sentì tanto rammarico per questo sinistro avvenimento benché da Lui né procurato né voluto, che determinò volerne fare condegna penitenza” e pure Francesco Verdeselli scrisse che il Beato “volendo fare dell’errore penitenza, si ritirò nella Religione del nostro Padre S. Francesco, tenendo vita asprissima in quella”.

Scelse di vestire “l’Abito de’ Minori”, di star col desiderio di ottenerlo”, come riporta Giuseppe Maria Pagliaccini, e condusse una vita di penitenza ed umiltà. Antonio Maria Bonucci riporta: “Le sue parole sono queste: quidam frater laicus”. Chiese a Dio di soffrire del male arrecato al suo compare e lo ottenne. Francesco Verdeselli annotò: “Per tradizione di molti Padri degni di fede, ho inteso che questo Beato addimandò con grande istanza al Signore Dio che gli facesse gratia di sentire, mentre viveva, l’istesso dolore, che sentì il suo Compare da Lui ferito, che il Signore subito l’esaudì”.

E di quella ferita morì, gli si aprì infatti una piaga alla gamba destra dalla quale non guarì più. Luca Wadding scrisse: “Narrano che morisse di mezza età, per quella ferita, volontariamente ricevuta: per lenire quei dolori i frati usavano diversi unguenti e medicine”. Morì nel 1394 “famoso per virtù e miracoli”, come riportò Luca Wadding, il quale specificò anche: “Fu sepolto nel Convento di Scotaneto, ossia di Monte Baroccio, Diocesi di Pesaro, nella fossa comune dei frati ma per l’aumentare dei miracoli, e per il felice spuntare di un giglio, il corpo fu riesumato e posto in un luogo più degno. Ora giace in un bel deposito di marmo istoriato, a sinistra di chi entra, presso l’Altare della Natività della Vergine”.

Ebbe il compito di maestro dei novizi. Numerosi sono gli episodi degni di nota riconducibili alla sua breve ma intensa vita francescana come la questua cui dedicava le sue giornate commista alla penitenza e alla preghiera assidua, alle messe e profonda devozione per l’Eucarestia e per la Santissima Vergine, la vicenda del lupo ammansito e la richiesta ai frati in punto di morte di ciliegie in pieno inverno i quali ubbidendogli pur diffidenti si recarono nell’orto e tra la neve ne trovarono increduli un ramo pieno di vigorosi e succulenti frutti.

I pellegrini che si raccolgono al Santuario sono tutt’oggi numerosissimi soprattutto nel mese che vede la celebrazione della sua festa, il 14 agosto, per la quale intervengono le figure istituzionali e le forze dell’ordine per garantire l’ordine e l’assistenza. Attualmente il complesso architettonico del santuario è costituito dalla Chiesa, dal Convento e dal Chiostro con un quadriportico ad archi a tutto sesto di notevole interesse.

Dall’interno del chiostro si accede poi alla Pinacoteca, dove sono conservati autentici capolavori. Nella chiesa, entrando ci si trova dinanzi a un grande Crocifisso del 1300 posto al di sopra dell’altare dove dal petto di Cristo squarciato zampilla un fiotto di sangue che va a fecondare la terra e raffigura la sorgente della vita. E’ dinanzi a questa croce che il Beato Sante si è prostrato a chiedere perdono. Si tratta dell’icona della veglia notturna passata dal giovane in cerca di penitenza e di redenzione e come lui anche i frati del passato e del presente possono immergersi dinanzi a questa raffigurazione nell’amore di Cristo per partecipare alla redenzione.

Lungo la navata troviamo sul lato sinistro le statue di San Francesco, Maria Vergine e Sant’Antonio. La volta della cappella è quadripartitica caratterizzata dai dipinti di Ciro Pavisa che riprende frammenti di cielo con angeli festanti in abiti colorati di giallo, rosa tenue, rosso mattone, indaco. Il tabernacolo dell’altare della cappella riporta l’immagine del Beato Sante con i suoi tipici simboli che ritraggono le sue virtù con insistenza perseverate fino all’eroismo: il sole che sorregge con la mano destra e testimonia il suo amore verso l’Eucarestia, la croce da lui stesso creata e ancora oggi strumento di benedizioni a fine messa che riassume il mistero della passione di Cristo vissuto nella sua carne, il giglio bianco simbolo della sua purezza, il lupo ammansito simbolo dei suoi prodigi.

Il materiale prevalente all’interno della chiesa è il legno scuro e semplice che ricrea un ambiente tipicamente umile e povero francescano. Soltanto nel 1908, dopo la soppressione napoleonica del 1810 e sabauda del 1862, i frati poterono tornare nel Convento per farne un importante centro di attività religiosa e sociale.

Il convento fu il primo fondato dai Francescani nella diocesi di Pesaro; pare che sia stato lo stesso San Francesco a mandare un gruppetto di frati per fondare la chiesa eretta nel 1223 quando San Francesco era ancora in vita. Solo duecento anni dopo, nel 1423, assunse la denominazione di Beato Sante per i meriti acquisiti dal converso minore Giansante.

I componenti della comunità del Santuario sono ad oggi quattro: Padre Tommaso Fiorentini (guardiano), Padre Alvaro Rosatelli (vicario e confessore), Padre Renato Martino (Vicario e Aiuto Pastorale delle Parrocchie di Santi Vito e Modesto in Mombaroccio e Santa Susanna in Villagrande di Mombaroccio), Padre Francesco Neroni (confessore) e svolgono un’onorevolissima opera di evangelizzazione.

Il Santuario del Beato Sante è oggetto di visite continue da parte dei pellegrini e abitanti dei borghi attigui e resta un luogo di grande riposo spirituale e meditativo rispetto alla civiltà frenetica. Bellissima a tal proposito e del tutto realistica è la poesia di Antonio Talamonti dedicata al santuario, in cui si riverbera il dolce sentire dello stare nel luogo in cui il Beato ha sparso opere di redenzione e miracoli.

“Il santuario del Beato Sante è posto in un luogo ameno
e delizioso nella vaghezza dei colori,
nello splendore della luce, nel fascino dell’incanto.
Il suo vasto e magnifico panorama
nei sereni tramonti della primavera
è verde e maestoso per il verde gaio
delle varie colline e dell’ampie pianure,
per il cielo purissimo che dal tenue celestino
va digradando al pallido argento
fino a confondersi con il vivo azzurro del mare:
mentre i contorni dei monti si dileguano nel roso
e nella porpora del sole morente.
E’ una visione che ci rapisce
e trasporta nelle più alte regioni dello spirito
dove non giungono i rumori del mondo”.